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Un altro americano a Roma

Parker: «Sono venuto qui per aiutare la Virtus a vincere». Esordio contro Avellino

ROMA - L’ultimo tassello di una squadra che sogna in grande è arrivato in città. Anthony Parker è a Roma ed è un giocatore della Roma, quella dei canestri. Con lui la Virtus ha speso l’ultimo visto a disposizione per mettere sotto contratto un extracomunitario. Di Antonhy si dice un gran bene. Oddio, Parker non è certo uno sconosciuto, la carriera testimonia le qualità di questo statunitense nato a Naperville, nell’Illinois, il 19 giugno del 1975. Lo testimoniano soprattutto le ultime due stagioni a Tel Aviv dove ha giocato con il Maccabi vincendo ogni trofeo, campionato, coppa nazionale e Suproleague e venendo anche nominato ottavo giocatore americano in Europa. Parker è un “piccolo", gioca ala-guardia, il ruolo nel quale Piero Bucchi aveva qualche difficoltà. Non perché Righetti o Myers non offrivano qualità: i due azzurri hanno semplicemente bisogno di spendere le loro energie meglio ma hanno, anche, bisogno di essere pungolati, come tutti del resto, per evitare il rischio di un pericoloso rilassamento.
Allontanare questi pericoli chiamando Parker, ragazzo intelligente con molti interessi, che è un amante di Roma. «L’ho vista un paio di anni fa, è una città bellissima e sono curioso di conoscerla per bene». E’ arrivato giovedì mattina di buon’ora a Fiumicino con moglie, figlioletto e il cane Sasha e sul nastro dell’aeroporto non ha trovato le sue valige: in una coincidenza del viaggio si sono smarrite e le avrà oggi, almeno gli hanno promesso.
Da molte settimane Roberto Brunamonti, il general manager della Virtus, lo chiamava al telefono per convincerlo ad accettare il contratto che poi ha firmato fino al termine della stagione ricevendo un compenso di 300 mila dollari. All’inizio Anthony nicchiava, era negli Usa con sua moglie Tamaris, che è portoricana, e in dolce attesa: il piccolo Alonso è nato un mese fa. «Sono felice di questa situazione. Il futuro? Lascio le cose in mano a Dio, come è stato l’anno passato».
Guarda il presente e rassicura il nuovo allenatore sulla forma fisica. «Da quando ho lasciato il Maccabi, all’inizio della scorsa estate, mi sono sempre allenato con il mio preparatore personale. Adesso non sono nella condizione ottimale, ma a breve sarò al massimo, non dubitatene». Pronto lo sarà già domani pomeriggio quando al Palazzetto Roma affronterà l’Air Avellino. Parker siederà in panchina pronto a saltare sul paquet con la sua maglia numero 12.
La pallacanestro come ragione di vita, sport e divertimento inseguendo le orme del papà che era un buon giocatore della Iowa University. «Mio padre giocava nel college ed io, fin dalla nascita, ho vissuto a stretto contatto con il basket. Avevo sempre il pallone tra le mani, volevo imitarlo e diventare anch’io un giocatore».
Il primo giorno a Settebagni è stato come a scuola, buoni propositi, belle intenzioni, elogi e sorrisi per tutti prima di andare in palestra a sudare con i nuovi compagni. «Conosco Santiago perché sono stato in Portorico dove ho conosciuto mia moglie, sono amico di Jenkins con il quale l’anno passato ho fatto un camp a Seattle. Horace? Sta crescendo ma non dimenticate che è complicato per un giocatore passare dalla A2 alla prima lega e imparare tutto in breve tempo».
Via dal terrore, da Israele dove non passa giorno senza un morto o un attentato. «La situazione di laggiù la conoscono tutti. Eppure, nonostante ciò, la vita continua ogni giorno. Per me e mia moglie è stata dura, ma a Tel Aviv mi sono trovato bene». Adesso nel suo futuro c’è Roma, il resto e il passato non gli interessa più. «No, neppure la Nba dove pure ho giocato, a Philadelphia e poi a Orlando». Giocare è la cosa che conta più d’ogni altra. «Ala piccola o guardia? Non ho particolari preferenze: dipende anche dal sistema di gioco. In ogni caso mi trovo a mio agio sia da 2 che da 3». Del resto nella pallacanestro attuale le differenze tra questi due ruoli sono diventate minime.
Difficile dire quale sia il pezzo forte di Parker: lui è un uomo-squadra, un eclettico bravo in tutto. «La cosa migliore del mio repertorio? Preferisco dire di saper fare tante cose ed essere al servizio della squadra. Ma se volete sapere qual è la mia dote, chiedetelo ai miei allenatori». Sorride se gli si chiede quale sia il suo difetto: «Parliamone dopo il campionato».
Carlo Santi
Fonte: Il Messaggero
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