Fino a qualche anno fa, Biella stava al basket esattamente come il Chievo stava al calcio. Nessuna tradizione, pochi soldi, ma in compenso grandi idee, entusiasmo e competenza, ingredienti che nello sport sono sempre vincenti.
Il progetto che ha portato la società piemontese nel campionato italiano di Foxy Cup (serie A1) parte da lontano, precisamente dalla primavera del ‘94, quando le due menti del basket biellese, il presidente Alberto Savio e l’amministratore delegato Marco Atripaldi, decisero che era arrivato il momento di creare qualcosa di importante. Dalla fusione delle due maggiori società cestistiche cittadine nacque così l’Associazione sportiva pallacanestro Biella, affidata alle cure di un allenatore esperto come Federico D’Anna che nel corso di pochi anni giunse al traguardo della serie A2, conquistata dopo uno spareggio con Barcellona Pozzo di Gotto nel 1998.
Da quel momento Biella inizia ad essere una piazza conosciuta da tutto l’ambiente cestistico italiano, grazie a quelle che negli anni sono poi diventate le sue caratteristiche peculiari: ricerca di giovani da lanciare, rivalutazione di giocatori in crisi da riproporre ad alti livelli e soprattutto la scelta di stranieri poco costosi ma particolarmente redditizi dal punto di vista tecnico.
Un esempio per tutti è quello di Joseph Blair, arrivato in Piemonte a nell’estate del ‘98 dagli Harlem Globettrotters (la squadra americana che gira il mondo con uno spettacolo fatto attraverso il basket) e per questo oggetto di commenti ironici da parte di molti addetti ai lavori. L’americano si è poi segnalato come la rivelazione del primo campionato di A2, portando i suoi a battere la Scavolini Pesaro nella semifinale play-off valida per la promozione nella massima serie. Biella si è poi arresa soltanto a Reggio Calabria nella finale che valeva la promozione, Blair ha iniziato da lì una carriera importante in alcuni grandi club europei: ora è in Turchia, all’Ulker.
«Il segreto per la ricerca di buoni stranieri a basso costo» ci spiega l’amministratore delegato Atripaldi «è tutto nel rapporto che siamo riusciti a creare con gli agenti nel corso degli anni. Abbiamo una fitta rete di contatti che ci permette di avere diverse segnalazioni ogni anno. Non avendo tanti soldi, dobbiamo aguzzare l’ingegno. Il discorso vale anche per i giocatori italiani: non abbiamo grandi possibilità economiche, ma abbiamo pazienza. Quando scegliamo un giocatore, ci crediamo profondamente e lo aspettiamo fino a quando non gioca come noi ci aspettiamo. Per il momento questo atteggiamento ci ha sempre ripagati». La stagione d’oro per Biella è quella 2000-2001, quando alla guida tecnica dei piemontesi arriva Marco Crespi, che aveva appena terminato il suo rapporto con l’Olimpia Milano. Con l’ex allenatore delle Scarpette rosse i piemontesi vincono 30 partite su 36 ed approdano nella massima serie, mettendo in mostra americani sconosciuti ma devastanti sul parquet, quali Antonio Granger, Corey Brewer e Ken Lacey, che diventeranno poi molto ambiti dalle grandi società. «Quei giocatori e più in generale quel gruppo» ci dice ancora Atripaldi «erano veramente eccezionali. Granger e gli altri li abbiamo presi seguendo il nostro solito metodo. Dopo aver ricevuto le segnalazioni dagli agenti e dagli scout con cui collaboriamo, decidiamo quali debbano essere i giocatori da seguire con maggior attenzione. Una volta ristretto il gruppo tra cui scegliere, io e l’allenatore andiamo negli Stati Uniti o dove si trovano gli atleti che ci interessano, per vederli dal vivo e poter decidere bene. Il nostro budget è quello minimo che la Lega ha previsto per poter partecipare al massimo campionato, vale a dire 1.550.000 euro, e quindi non possiamo permetterci di sbagliare le nostre scelte».
La squadra, fin dal primo anno di A1 (disputato nella scorsa stagione), è stata affidata ad Alessandro Ramagli, giunto a Biella assieme a Marco Crespi come allenatore in seconda. L’anno scorso i piemontesi hanno sfiorato i play-off, togliendosi grandi soddisfazione come quella di aver espugnato il campo dell’Olimpia Milano davanti a più di un migliaio di tifosi biellesi che avevano seguito la squadra in trasferta, o come l’aver superato tra le mura amiche formazioni del calibro di Virtus e Fortitudo Bologna, Pesaro e Trieste.
Quest’anno Biella ha deciso di ridisegnare la squadra, «italianizzandola» di più con gli innesti di giovani giocatori come Andrea Michelori (proveniente da Milano), Fabio Di Bella (Pavia) e Marco Carraretto (Verona) e puntando alla salvezza, senza troppe illusioni.
«La nostra società, come del resto la stragrande maggioranza dei club italiani» ci spiega ancora Atripaldi «è ben felice di affidarsi ad atleti di casa. Il problema è che il sistema deve aiutarci nella produzione e valorizzazione dei giovani italiani. Ci devono essere degli incentivi per “produrre italiani”, oltre ad avere regole certe che per esempio evitino il mercato dei passaporti. Noi pensiamo che provvedimenti come uno sconto sul tetto degli ingaggi, la possibilità del doppio tesseramento per i giovani e il vincolo fino ai 21 anni per i prodotti del vivaio siano quello che ci vuole per ridare slancio ai settori giovanili. È inutile procedere per decreti come ha fatto il Coni questa estate, imponendo il tetto dei tre extracomunitari per squadra, perché i giovani giocatori italiani non si creano per decreto. Abbiamo bisogno di riforme e di un periodo di almeno 3-4 anni per poter programmare un futuro diverso. In quel caso si potrebbe arrivare in modo indolore alla definizione di un tetto massimo per i non comunitari e ad avere tanti italiani per squadra. Perché il pubblico ama i giocatori italiani, compreso il pubblico di Biella, che fino ad oggi è stata la nostra grande forza, grazie alla sua presenza assidua ma discreta. Anche in questa stagione, che per noi è di transizione con una squadra molto giovane e “italiana”, il pubblico ha compreso i nostri sforzi e ci segue con passione».
Giuseppe Caruso
Il progetto che ha portato la società piemontese nel campionato italiano di Foxy Cup (serie A1) parte da lontano, precisamente dalla primavera del ‘94, quando le due menti del basket biellese, il presidente Alberto Savio e l’amministratore delegato Marco Atripaldi, decisero che era arrivato il momento di creare qualcosa di importante. Dalla fusione delle due maggiori società cestistiche cittadine nacque così l’Associazione sportiva pallacanestro Biella, affidata alle cure di un allenatore esperto come Federico D’Anna che nel corso di pochi anni giunse al traguardo della serie A2, conquistata dopo uno spareggio con Barcellona Pozzo di Gotto nel 1998.
Da quel momento Biella inizia ad essere una piazza conosciuta da tutto l’ambiente cestistico italiano, grazie a quelle che negli anni sono poi diventate le sue caratteristiche peculiari: ricerca di giovani da lanciare, rivalutazione di giocatori in crisi da riproporre ad alti livelli e soprattutto la scelta di stranieri poco costosi ma particolarmente redditizi dal punto di vista tecnico.
Un esempio per tutti è quello di Joseph Blair, arrivato in Piemonte a nell’estate del ‘98 dagli Harlem Globettrotters (la squadra americana che gira il mondo con uno spettacolo fatto attraverso il basket) e per questo oggetto di commenti ironici da parte di molti addetti ai lavori. L’americano si è poi segnalato come la rivelazione del primo campionato di A2, portando i suoi a battere la Scavolini Pesaro nella semifinale play-off valida per la promozione nella massima serie. Biella si è poi arresa soltanto a Reggio Calabria nella finale che valeva la promozione, Blair ha iniziato da lì una carriera importante in alcuni grandi club europei: ora è in Turchia, all’Ulker.
«Il segreto per la ricerca di buoni stranieri a basso costo» ci spiega l’amministratore delegato Atripaldi «è tutto nel rapporto che siamo riusciti a creare con gli agenti nel corso degli anni. Abbiamo una fitta rete di contatti che ci permette di avere diverse segnalazioni ogni anno. Non avendo tanti soldi, dobbiamo aguzzare l’ingegno. Il discorso vale anche per i giocatori italiani: non abbiamo grandi possibilità economiche, ma abbiamo pazienza. Quando scegliamo un giocatore, ci crediamo profondamente e lo aspettiamo fino a quando non gioca come noi ci aspettiamo. Per il momento questo atteggiamento ci ha sempre ripagati». La stagione d’oro per Biella è quella 2000-2001, quando alla guida tecnica dei piemontesi arriva Marco Crespi, che aveva appena terminato il suo rapporto con l’Olimpia Milano. Con l’ex allenatore delle Scarpette rosse i piemontesi vincono 30 partite su 36 ed approdano nella massima serie, mettendo in mostra americani sconosciuti ma devastanti sul parquet, quali Antonio Granger, Corey Brewer e Ken Lacey, che diventeranno poi molto ambiti dalle grandi società. «Quei giocatori e più in generale quel gruppo» ci dice ancora Atripaldi «erano veramente eccezionali. Granger e gli altri li abbiamo presi seguendo il nostro solito metodo. Dopo aver ricevuto le segnalazioni dagli agenti e dagli scout con cui collaboriamo, decidiamo quali debbano essere i giocatori da seguire con maggior attenzione. Una volta ristretto il gruppo tra cui scegliere, io e l’allenatore andiamo negli Stati Uniti o dove si trovano gli atleti che ci interessano, per vederli dal vivo e poter decidere bene. Il nostro budget è quello minimo che la Lega ha previsto per poter partecipare al massimo campionato, vale a dire 1.550.000 euro, e quindi non possiamo permetterci di sbagliare le nostre scelte».
La squadra, fin dal primo anno di A1 (disputato nella scorsa stagione), è stata affidata ad Alessandro Ramagli, giunto a Biella assieme a Marco Crespi come allenatore in seconda. L’anno scorso i piemontesi hanno sfiorato i play-off, togliendosi grandi soddisfazione come quella di aver espugnato il campo dell’Olimpia Milano davanti a più di un migliaio di tifosi biellesi che avevano seguito la squadra in trasferta, o come l’aver superato tra le mura amiche formazioni del calibro di Virtus e Fortitudo Bologna, Pesaro e Trieste.
Quest’anno Biella ha deciso di ridisegnare la squadra, «italianizzandola» di più con gli innesti di giovani giocatori come Andrea Michelori (proveniente da Milano), Fabio Di Bella (Pavia) e Marco Carraretto (Verona) e puntando alla salvezza, senza troppe illusioni.
«La nostra società, come del resto la stragrande maggioranza dei club italiani» ci spiega ancora Atripaldi «è ben felice di affidarsi ad atleti di casa. Il problema è che il sistema deve aiutarci nella produzione e valorizzazione dei giovani italiani. Ci devono essere degli incentivi per “produrre italiani”, oltre ad avere regole certe che per esempio evitino il mercato dei passaporti. Noi pensiamo che provvedimenti come uno sconto sul tetto degli ingaggi, la possibilità del doppio tesseramento per i giovani e il vincolo fino ai 21 anni per i prodotti del vivaio siano quello che ci vuole per ridare slancio ai settori giovanili. È inutile procedere per decreti come ha fatto il Coni questa estate, imponendo il tetto dei tre extracomunitari per squadra, perché i giovani giocatori italiani non si creano per decreto. Abbiamo bisogno di riforme e di un periodo di almeno 3-4 anni per poter programmare un futuro diverso. In quel caso si potrebbe arrivare in modo indolore alla definizione di un tetto massimo per i non comunitari e ad avere tanti italiani per squadra. Perché il pubblico ama i giocatori italiani, compreso il pubblico di Biella, che fino ad oggi è stata la nostra grande forza, grazie alla sua presenza assidua ma discreta. Anche in questa stagione, che per noi è di transizione con una squadra molto giovane e “italiana”, il pubblico ha compreso i nostri sforzi e ci segue con passione».
Giuseppe Caruso