«Perché mi guardate? E perché, soprattutto, mi cercate tutte le volte che perdiamo?». Ha il cerottino sul naso (per respirare meglio), il paradenti (per proteggere gli incisivi da qualche colpo proibito) e lo sguardo spiritato. Gianmarco Pozzecco non è uno che si nasconda e prova a smuovere la squadra e i compagni con un piccolo sfogo. Che pronunciato da lui si trasforma quasi in uno show.
«C'è un'atmosfera allucinante - dice -. Me l'avevano detto, ma non ci volevo credere. Ma il bello è che a creare questo clima e questa pressione, non siete voi giornalisti e o il pubblico che ci segue. Ma siamo noi stessi».
Accetta serenamente la sconfitta di Cantù – e del resto aveva previsto che, tra la Brianza e il nord est (Treviso), l'Aquila avrebbe lasciato due punti -, ma non condivide certi atteggiamenti.
«Sembra – incalza – che certe cose succedano solo qua. Che solo la Fortitudo giochi in trasferta, che solo questa squadra abbia degli infortunati. Che subito ci vogliano almeno due giocatori nuovi per far fronte a chissà qualche assenza. Così, quando arriviamo alla palla a due, pare quasi che il pallone che ci venga assegnato sia un cubo. Invece è una bella sfera. Come accade a tutti. E invece sembra che qua non sia mai passato un play, che non ci sia mai stato un lungo. Se uno starnutisce si grida subito al tumore. Così non va perché la pressione ce la creiamo da soli». Uno sfogo costruttivo, quello del Poz, che vuole smuovere una squadra che ogni tanto si rintana su se stessa. «Si ferma un giocatore durante il riscaldamento? Spiace, certo, ma ci sono altri che possono scendere in campo. E allora cerchiamo di interpretare la pallacanestro in questo modo. E' un gioco: si vince e si perde. Non facciamo un dramma».
Un ragionamento quasi cinico. Il ragionamento, parrebbe, di uno che si interessa il giusto dell'andamento della sua squadra. In realtà queste considerazioni non vanno prese da sole. Ma mescolate al personaggio Pozzecco: ovvero un atleta che ha una grande stima di se stesso (e questo non è una critica, anzi…) e che non ama perdere. Il Poz vuole vincere. E' venuto qua per questo perché a 30 anni suonati ha capito che la sua avventura a Varese era finita. E che là, dov'era un eroe, non avrebbe più vinto nulla dopo quell'incredibile e rocambolesco scudetto del 1999. E' venuto qua – conosceva già la città – per dimostrare che lui e Boniciolli possono lavorare insieme. Che insieme possono fare grandi cose. Uno sfogo positivo che il Poz chiude concedendosi una battuta. «Con tutti questi infortuni finisce che gioco di più».
Alessandro Gallo
«C'è un'atmosfera allucinante - dice -. Me l'avevano detto, ma non ci volevo credere. Ma il bello è che a creare questo clima e questa pressione, non siete voi giornalisti e o il pubblico che ci segue. Ma siamo noi stessi».
Accetta serenamente la sconfitta di Cantù – e del resto aveva previsto che, tra la Brianza e il nord est (Treviso), l'Aquila avrebbe lasciato due punti -, ma non condivide certi atteggiamenti.
«Sembra – incalza – che certe cose succedano solo qua. Che solo la Fortitudo giochi in trasferta, che solo questa squadra abbia degli infortunati. Che subito ci vogliano almeno due giocatori nuovi per far fronte a chissà qualche assenza. Così, quando arriviamo alla palla a due, pare quasi che il pallone che ci venga assegnato sia un cubo. Invece è una bella sfera. Come accade a tutti. E invece sembra che qua non sia mai passato un play, che non ci sia mai stato un lungo. Se uno starnutisce si grida subito al tumore. Così non va perché la pressione ce la creiamo da soli». Uno sfogo costruttivo, quello del Poz, che vuole smuovere una squadra che ogni tanto si rintana su se stessa. «Si ferma un giocatore durante il riscaldamento? Spiace, certo, ma ci sono altri che possono scendere in campo. E allora cerchiamo di interpretare la pallacanestro in questo modo. E' un gioco: si vince e si perde. Non facciamo un dramma».
Un ragionamento quasi cinico. Il ragionamento, parrebbe, di uno che si interessa il giusto dell'andamento della sua squadra. In realtà queste considerazioni non vanno prese da sole. Ma mescolate al personaggio Pozzecco: ovvero un atleta che ha una grande stima di se stesso (e questo non è una critica, anzi…) e che non ama perdere. Il Poz vuole vincere. E' venuto qua per questo perché a 30 anni suonati ha capito che la sua avventura a Varese era finita. E che là, dov'era un eroe, non avrebbe più vinto nulla dopo quell'incredibile e rocambolesco scudetto del 1999. E' venuto qua – conosceva già la città – per dimostrare che lui e Boniciolli possono lavorare insieme. Che insieme possono fare grandi cose. Uno sfogo positivo che il Poz chiude concedendosi una battuta. «Con tutti questi infortuni finisce che gioco di più».
Alessandro Gallo
Fonte: Il Resto del Carlino