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Basket Usa, il mito rovesciato

Gli stranieri conquistano l´Nba: 67 giocatori non americani, un quinto del totale

E´ nella storia dell´umanità che i colonizzatori finiscano invasi dai colonizzati. Tra i vari miti da cancellare c´è quello della Nba, l´empireo della pallacanestro irraggiungibile per i comuni mortali. Un tempo gli Dei del basket americani si degnavano di mostrare ed esportare le loro virtù nel mondo e, ogni tanto, concedevano la grazia di sedere al loro banchetto a qualche coraggioso. Vittime della globalizzazione alla rovescia, gli statunitensi sono arrivati quest´anno ad accogliere la cifra record di 67 giocatori stranieri da 35 paesi: uno su cinque. E sempre di più da protagonisti, come il serbo Predrag Stojakovic che l´altra sera ha segnato 26 dei 100 punti dei Kings.
Solo due squadre, New York Knicks e Atlanta Hawks, resistono nell´autarchia. Che qualcosa stesse cambiando si era capito già ai Mondiali di settembre quando il Dream Team ha conosciuto la prima umiliazione dopo 58 vittorie consecutive in 10 anni. Nel ´92 gli stranieri nella Nba erano 21. Nell´ultimo All Star Game non se n´erano mai visti tanti in campo, prima: 5. Questa estate per la prima volta la scelta n.1 è stato uno straniero: il cinese Yao Ming, 226 cm, arrivato a Houston per 12,4 milioni di dollari. «E´ un segno dei tempi» scriveva ieri l´Herald Tribune, che all´avvio della stagione «ci fosse più interesse per Yao Ming che per Jordan». Lo spagnolo Pau Gasol, 22enne barcellonese dei Grizzlies, nella stagione scorsa è stato eletto rookie dell´anno, cioè miglior debuttante. Un titolo cui ora aspira l´argentino Manuel Ginobili, ex Virtus Bologna, che ha già cominciato da protagonista negli Spurs: «La Nba - dice - non è più un mostro incredibile come 5 o 10 anni fa, le distanze si sono accorciate».
Gli americani si spiegano il fenomeno in due modi: da una parte, dicono, a forza di vedere la Nba in televisione (le partite vengono ora trasmesse in 210 paesi e 42 lingue diverse) anche gli altri hanno imparato; dall´altra «quel che accade - sostiene l´ex allenatore della Georgetown University, John Thompson - è il risultato della compiacenza e della pigrizia dei giocatori americani».
Dan Peterson ha cominciato a raccontare la Nba in tv vent´anni fa: «Ed è vero che in questo modo i cestisti internazionali hanno potuto emulare, studiare, perfezionare. Gli europei hanno tecnica sopraffina e stranamente sono meglio allevati degli americani. Atleticamente sono più preparati di un tempo: non sono più inchiodati per terra. Nei prossimi dieci anni gli stranieri saranno il 50%, come nel baseball e nell´hockey dove per anni quei fessi degli allenatori volevano in campo solo picchiatori finché non sono serviti gli europei a portare un po´ più di qualità. I talent scout Nba sono scatenati nella ricerca di stranieri perché alla fine della fiera si vince con la tecnica. Presto vedremo nella Nba anche coach europei come Pesic, Obradovic, Ivkovic e Messina: in Europa ora si insegna a giocare meglio che nelle università americane dove i ragazzi non vengono più istruiti e passano l´estate a giocare in quelle leghe del cavolo». Infatti, a differenza della precedente generazione di talenti esotici (quella di Schrempf o Olajuwon) cresciuta nei college Usa, questi nuovi arrivano direttamente già svezzati.
Sasha Danilovic, ex campione della Virtus Bologna e ora presidente del Partizan Belgrado, è stato tra i campioni europei che hanno allargato la breccia: «Gli americani si sono accorti che siamo bravi e che possiamo portare un basket meno fisico e più tecnico: più bello da vedere. I nostri giovani vanno subito là perché qui non ci sono più soldi e loro pensano soprattutto a quelli».
Emilio Marrese
Fonte: La Repubblica
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