Di Filippo Stasi
Jordan Parks, il tuo rendimento personale nel mese di gennaio è stato eccellente. Spicca la tua prestazione da 40 punti e 50 di valutazione (!) nella partita contro la Fortitudo Bologna, ma anche le tue medie sono state straordinarie: 21.4 punti col 65% da 2 punti e il 35% da 3, più 8.4 rimbalzi di media ad allacciata di scarpe in questo inizio di 2022. Senti di star giocando il miglior basket della tua carriera con la maglia della GeVi Napoli?
La gara contro Bologna è stata fantastica a livello individuale, ma non la ricordo con troppo piacere perché alla fine abbiamo perso una partita cruciale che - in caso di vittoria - ci avrebbe garantito la qualificazione alle Final Eight di Coppa Italia. È stata una sconfitta dura da digerire, tutti noi avremmo voluto prendere parte alla competizione anche per dare una soddisfazione sia al Club che ai tifosi, che ci sostengono sempre… Di conseguenza non sono riuscito a godermi al meglio l’exploit. Ma sicuramente ho tratto ancora più fiducia da quella serata. So bene quanto posso dare a questa squadra. È ancora presto per dire se sia la mia miglior stagione da quanto sono in Italia; al momento risponderei che il mio anno a Capo d’Orlando in Serie A2 è stato il migliore per rendimento personale, ma spero di continuare a crescere in questo modo e a dare il meglio di me per la piazza di Napoli.
Due giorni fa avete conquistato una vittoria preziosa contro Trieste, che vi ha permesso di interrompere una striscia di sconfitte che appunto non vi ha permesso di qualificarvi alla Final Eight di Pesaro… Sentivate l’urgenza di tornare a vincere una partita? Come l’avete preparata durante la settimana?
Senza dubbio il gruppo non vedeva l’ora di riscattarsi e rialzarsi dal momento negativo a livello di risultati. Venivamo da cinque sconfitte consecutive, ma va anche ricordato che prima ancora avevamo vinto cinque dei precedenti sei match disputati, per cui non eravamo troppo allarmati; si trattava solamente di trovare concretezza, continuità di rendimento. Per riuscirci, in questi casi, l’unica ricetta possibile prevede allenamenti ad alta intensità, come se fosse sempre il giorno della partita, per rafforzare la solidità difensiva di squadra. Se questo avviene, poi in attacco è tutto più semplice perché coach Sacripanti ci lascia liberi di sfogare gli istinti offensivi. È un allenatore diverso da tanti altri che ho avuto in passato per questo motivo: permette a ognuno di noi di mettere in campo ciò che ci riesce meglio, e riusciamo a farlo in armonia. A Napoli ho trovato uno spogliatoio molto unito, tra i migliori dei quali sono stato parte. Ottenere la promozione nella massima serie lo scorso anno ha contribuito sicuramente a stringerci con ancora più forza per provare a raggiungere altri ambiziosi obiettivi durante la stagione corrente. Al momento siamo a ridosso della zona playoff: ottenere un posto tra le prime 8 al termine della stagione regolare sarebbe un risultato grandioso. Ci proveremo fino in fondo.
La partita di lunedì scorso era da ex per te: Trieste ha rappresentato la tua prima tappa da professionista. Che ricordi hai del tuo anno da rookie in Italia a 21 anni, che tipo di difficoltà hai dovuto affrontare al tuo arrivo in Italia e soprattutto - guardando indietro a quegli anni - in cosa ti senti particolarmente migliorato rispetto ad allora?
Durante la mia prima stagione a Trieste, ero l’unico giovane statunitense al primo anno fuori dagli USA. Certamente non è stato immediato ambientarsi, ma non parlerei di difficoltà, perché questo mi ha spinto a immergermi il più possibile nel nuovo contesto e integrarmi velocemente nel nuovo ambiente. Menziono e ringrazio soprattutto Andrea Pecile che mi hanno fatto da mentore a Trieste, sostenendomi e guidandomi al meglio per facilitare questo processo. Lo stesso Daniele Cavaliero - che contro di noi ha giocato una gran partita - mi è stato amico sin da subito e da allora siamo rimasti in contatto, da ottimi amici. Per cui non sarebbe giusto parlare di difficoltà; se mai, di adattamento a qualcosa di diverso. E ripensando al giovane Parks, oggi lo considero più forte in praticamente ogni aspetto del gioco: sia dal punto di vista tecnico - penso alle abilità al tiro da fuori, o al posizionamento in difesa - sia da quello mentale. Ho sviluppato maggiore consapevolezza del mio ruolo all’interno della squadra e sono diventato più predisposto e disciplinato a farmi allenare, e proprio questo porta a migliorarsi.
La tua carriera italiana ha avuto una costante: il numero 11 sulla tua schiena. Ha un particolare significato per te?
È curiosa la storia riguardante il mio numero di maglia. Come per molti accade, spesso si sceglie da bambini in base a quello che porta il proprio giocatore preferito. Il mio era KG, Kevin Garnett, che però ai Boston Celtics come ricorderete non vestiva il numero 11, bensì il 5. Infatti da ragazzo avevo il 5 e l’ho tenuto finché Garnett non è stato scambiato ai Brooklyn Nets. Lì prese il 2, e quindi lo presi anch’io… Solo in maniera casuale sono arrivato a vestire l’11 in Italia. La mia prima partita da professionista con Trieste l’ho giocata - quasi per scelta obbligata – proprio con quel numero, al quale oggi però sono legato. Non solo perché la somma dei due 1 che lo compongono fa 2, ma soprattutto perché è la data di nascita di mia figlia, che è venuta alla luce durante la mia esperienza a Capo d’Orlando. Da allora l’11 ha un significato ancora più intimo e speciale per me.
Mentre a proposito del tuo nickname su Instagram, PicassoParks, sappiamo che hai frequentato una scuola d’arte in gioventù… Ma c’è dell’altro che vuoi dirci circa la tua ammirazione per l’artista spagnolo e per l’arte in generale? Ti senti tu stesso un’artista, magari quando al posto del pennello prendi la palla e dipingi meraviglie sul parquet…
L’arte mi piace molto, ma ad essere sincero non nutro una particolare ammirazione per Picasso. Intendiamoci: resta un grande artista, unico nel suo genere, ma la mia scelta non è associabile a ciò che ha lasciato in eredità al mondo. Semplicemente mi piace tremendamente come suona ‘Picasso Parks’! Lo trovo un nickname carino, che si addice perfettamente alla personalità che esprimo ogni qual volta metto piede in campo. L’arte fa parte della vita di tutti noi: ogni forma di talento espresso è considerabile un’opera d’arte, per cui ognuno di noi è artista se mette a frutto il talento di cui è dotato. E se penso al mio tratto distintivo, riconoscibile come forma d’arte poiché non riesce con la stessa facilità e originalità alla maggior parte delle persone, senza dubbi lo individuo nella schiacciata a canestro. Un gesto atletico, ma anche tecnico, quindi artistico. Non a caso lo Slam Dunk Contest è uno show che non premia solamente la qualità dello stacco verso il canestro, ma anche la creatività con cui si conclude al ferro, la fantasia, l’unicità… Va considerata l’opera d’arte nel suo complesso, ponendo però la giusta attenzione ai tanti dettagli che la conferiscono valore. Per questa ragione, mi è sempre piaciuto associare le foto delle mie schiacciate a delle piccole opere d’arte, dei quadri da esporre nella personale galleria di ‘Picasso Parks’!