Dei nostri idoli sappiamo quanto sono bravi con una palla da basket tra le mani, ma nemmeno immaginiamo di cosa sono capaci con un foglio bianco davanti e una penna. È l'alba di una nuova sezione di OverTime in collaborazione con la Lega Basket Serie A. Un portale in cui i giocatori potranno rivelarsi per quello che sono davvero.
"Mi chiamo Kelvin Martin, sono un giocatore di basket della Happy Casa Brindisi e vengo da Adel, Georgia, un paesino di circa 5000 anime. Sono un professionista da 8 anni, e in questo mondo da 30. Ho visto il razzismo e la discriminazione coi miei occhi, ho avuto paura per la mia vita più volte, ho lottato con le unghie per essere dove sono adesso. Attraverso le mie esperienze ho sempre cercato una via d’uscita dalla mia città per avere una vita migliore, in modo da poter incoraggiare ed aiutare gli altri ad avere una seconda opportunità. Il basket è stato uno dei miei primi amori e la chiave verso il mio successo. Non do niente per scontato perché mi ha dato moltissime opportunità e ne sono grato. E sono grato al modo in cui grazie allo sport in generale sono diventato ciò che sono oggi e ho superato ogni ostacolo.
Ricordo benissimo il mio secondo anno alla high school, la stagione del basket era appena terminata. A 15 anni volevo due cose principalmente: cominciare a lavorare o diventare un atleta. Inizialmente ho scelto la prima, perché volevo avere i miei guadagni senza dover più fare affidamento sui miei genitori. E così mi sono candidato ad un lavoro in un negozio di alimentari chiamato “Dorsey’s”. Ero un ragazzino, ma avevo capito che dovevo essere responsabile e prepararmi alla vita sin da allora. Purtroppo però non andò come speravo.
Fun fact: è stato l’unico lavoro al quale mi sia mai candidato.
L’unico vero lavoro che io abbia mai fatto da allora è stato quello di giocare a basket.
Eccoci quindi alla seconda opzione: atleta. Diciamo che non è che fossi proprio il migliore, le mie specialità erano il salto in alto e i 400 metri. Il motivo per il quale stavo provando a diventare un professionista era che non lavoravo mentre molti miei amici lo facevano. Probabilmente per le mie capacità atletiche avrei dovuto fare le corse su lunga distanza, dal momento che riuscivo a correre a lungo senza stancarmi. Ma i miei allenatori non la pensavano allo stesso modo.
Un giorno in allenamento, mentre provavo il salto in alto, dissi al mio coach “Io questo non posso farlo, non puoi sperare che qui sia in grado di fare le stesse cose che faccio su un campo da basket”.
Mi fissò negli occhi e urlò davanti a tutti: “Non sei buono nemmeno in quello!”.
Mi fermai, lo guardai e dissi: “Cosa?!” uscendo imbestialito dal campo. Non sono mai stato una persona arrendevole, ma quel giorno smisi non perché non fossi buono ma perché sentivo che quella persona mi aveva profondamente mancato di rispetto. Da allenatore penso che il tuo compito sia far uscire il meglio dai ragazzi che formi, da ognuno di loro. E se un ragazzo ci sta provando con tutto se stesso il tuo lavoro è quello di allenarlo nella miglior maniera possibile.
La stessa cosa è successa quando giocavo a football. Lì mi sentivo discriminato e lo ricordo benissimo. Mi allenavo bene, il mio talento era palese, ero fortissimo… ma non vedevo il campo. Credetemi, uccidevo letteralmente i difensori da wide receiver ma il coach non sceglieva chi andava in campo rispetto alla bravura ma in base al fatto che alcuni dei miei compagni avevano genitori che finanziavano la stessa squadra con dei fondi provenienti da sponsor. Sapevo benissimo, ogni giorno, che pur allenandomi al massimo non avrei giocato e avevo intuito che il mio non scendere in campo era “colpa” dei miei genitori, che non avevano fondi necessari per partecipare come gli altri. Quando sono passato la basket, un po’ per talento un po’ perchè deluso da questo meccanismo, ho trovato una cultura del tutto diversa.Non contava di chi fossi figlio, non contava quanti soldi avessi e nemmeno il colore della pelle: contava quanto eri bravo.
I miei allenatori, proprio quelli che non mi hanno mai dato una chance nel football, dicevano che non sarei stato in grado di ottenere una borsa di studio giocando a basket. E quando me l’hanno detto ho deciso di dimostrare loro che avevano torto. Due allenatori mi hanno fatto decidere che avrei giocato solo a basket e ci avrei dedicato tutto il mio tempo. E quando ero un senior alla high school avevo quindici offerte di borse di studio da squadre di Division One, che aumentarono man mano che la stagione andava avanti.
Avevo sorpreso tutti. Era stata la mia vittoria più grande.
C’erano gli allenatori dei college che venivano a Cook County per vedermi all’opera. Le palestre avevano i posti esauriti perché la gente voleva vedermi segnare, schiacciare, stoppare. Ero arrivato al livello successivo per dimostrare a quei due allenatori di football che avevano sbagliato. Ormai tutti credevano in me ed erano d’accordo con la mia decisione di dedicarmi solo ed esclusivamente alla pallacanestro. Questo è quello che un allenatore deve fare: aiutare, incoraggiare ed ispirare non solo sul campo ma anche fuori. Questi ragazzi facevano di tutto per essere sicuri che la nostra squadra avesse esattamente la stessa possibilità delle altre di avere successo. Erano duri con noi, ma ci insegnavano come essere uomini. Ci facevano viaggiare in divisa, si assicuravano che passassimo gli esami e che rispettassimo tutti. Sono cresciuto grazie al basket ripetendomi che volevo essere come loro, aiutare i ragazzi come loro avevano aiutato me e gli altri. Questo significa avere un cuore. Ognuno di loro aveva le sue famiglie, eppure su quel rettangolo ci trattavano come se ne fossimo parte integrante.
Essendo cresciuto in una piccola città la cosa che veramente mancava era essere parte di una comunità. Nessuno organizzava eventi per tutti, nessuno parlava ai bambini o pensava a dei camp gratuiti per toglierci dalla strada e farci socializzare. Era come se fossimo segregati. Uniti e accomunati solo dalla violenza, dalla droga, dalla morte che avevamo attorno. Io da bambino sapevo di volere un modello al quale ispirarmi, qualcuno che facesse quello che avrei voluto fare io e che parlasse ai più piccoli organizzando qualcosa per tutti noi. Qualcuno che portasse positività e amore. Non ho mai provato niente di tutto questo.
Ho capito che vivendo in una piccola città l’unico modo che hai per uscirne è essere talmente bravo da andare al college. In pratica o sei bravo nello sport, o entri nell’esercito. Queste erano le alternative che un bambino si trovava davanti per avere successo.
Non avevamo nessun modello per capire quale punteggio bisognava ottenere nel SAT o nel ACT per essere ammessi al college. E nemmeno sapevamo che i nostri risultati determinassero se al college potevamo andarci o meno. Imparavamo semplicemente dalle nostre esperienze, da soli. E per fortuna abbiamo trovato persone all’interno del nostro sistema scolastico e nella comunità che ci potevano aiutare. Mancava una guida che ci accompagnasse nella vita di tutti i giorni e facesse da ispirazione.
Immaginate l’impatto che potrebbe avere un atleta professionista della vostra città che occupa il suo tempo passandolo con i vostri figli, nipoti, fratellini, parlando delle sue esperienze. Esattamente quello che avrei voluto io con tanti dei miei compagni, ma siamo cresciuti senza questa componente."